Il Cenotafio di Simon Petit

Un brano da “Il Cenotafio di Simon Petit” – Leucotea, 2014

“E poi un inerpicarsi di salite ancora, e di nuovo ad ammirare l’affacciarsi arrogante e stolto delle facciate in legno, l’appropinquarsi e pendere delle loro facce, finestre come occhi e porte come bocche, e smorfie di sdegno dall’odore di legno, un tormentar di tenermi lontana.
E poi Place Plumerau, e lo stendersi e puntare al cielo di ogni edificio, un sentirsi piccola e futile, tanto vuota davanti a quello stagliarsi eterno, immobile e imperituro.
E le ampie finestre buie, e un parer arroccarsi tutti gli stagliarsi in un’unica massa, un unico ammasso di edifici per puntare al cielo, spingendosi l’un l’altro, tra pietra e pietra.
E il passar della gente schiacciata, oberata, spinta a terra da quello stagliarsi, da quel mostrarsi troppo superbo e distan-te, troppo distaccato, arrogante.
Puntavo gli occhi al cielo e vedevo tetti, vedevo comignoli, finestre, piccoli balconi.
E soltanto qualche scorcio di nuvola, eppure io Tours la conoscevo bene, la abitavo da tempo, anche se non l’avrei mai vissuta, ed ancora non la vivo.
Eppure io Place Plumerau la conoscevo per ogni anfratto, in ogni angolo, in ogni minuto particolare.
Ma era la prima volta che vedevo il mondo con gli occhi di un adulto che si rende conto di essere ancora bambino, ancora quella bimba a guardare il granaio, a riprendere una vita scorsa via, scappata, ed ora afferrata di nuovo, una vita voluta.
Ora io volevo, e spingevo me stessa a non pensare, ma sol-tanto a volere.
E volevo trovare un violino, un violino per Simon.
Per la mia personale voglia, forse più che per il suo sorriso.
Guardavo il cielo e vedevo solo spicchi di nuvola, stagliarsi di tetti.
E lo stendersi della piazza ed il passare sormontato ed occluso, l’andar della folla, spremuto, allontanato.
Tutto quanto era un premere a terra, uno scorrere tra i calcinacci, e solamente io rimanevo in piedi.
Non avevo idea di dove avrei trovato un violino, ma avevo la certezza che mi sarebbe capitato, in fondo era destino.
Io ci sarei caduta, il posto mi avrebbe trovata.
Restava solo da vagare, premere un poco ancora sulle gambe madide ed umide, e stringere il respiro. E tenere la gonna tra le dita, e sentire sotto i piedi lo scorrere di Tours, il suo inerpicarsi sulla terra.
Ed un passar schiacciato di chi l’abitava.
Se alzo lo sguardo ora vedo gli stessi tetti, lo stesso sta-gliarsi eterno.
Ma io sono al di sopra.
E ricordo.”

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